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Il Cofanetto

Anonimo - Mandylion.jpg

racconto
antologia:
IL GENTILUOMO DECOLLATO

Pianura Padana, 1870.

Uno scalpiccio di passi svelti si distinsero nell’ombra silenziosa. Una figura, avvolta in un mantello, girò l’angolo di un vicolo, poi, aumentando l’andatura svoltò in un altra viuzza e poi girò ancora e ancora, senza perdere sicurezza in quel dedalo di stradine.

Il largo cappuccio che gli copriva il capo si muoveva sinuoso accompagnando gli spostamenti della testa e l’ampio tabarro ondeggiava al ritmo incalzante della corsa.

La luce fioca di un lampione illuminò per un istante la forma adunca della Larva nera veneziana mentre la bocca, celata della maschera, era socchiusa su un respiro affannato. Tra le braccia stringeva un oggetto avviluppato in un panno scuro.

La fuga si interruppe in una piazzetta, il ceffo si appiattì lungo la parete laterale sotto un colonnato, rimase in ascolto qualche minuto poi, strisciando di lato, raggiunse un portone semichiuso, lo spinse ed entrò. Nel piccolo cortile interno l’uomo percepì il respiro nervoso di un cavallo, il trepestio di zoccoli attutito dalla paglia nella stalla del palazzo addormentato. Una volta dentro posò l’oggetto e preparò finimenti e sella, mentre gli sbuffi dell’equino inquieto inumidirono l’aria.

Imbrigliato, il cavallo si lasciò condurre al passo fuori dalla stalla e oltre il cortile, e dopo un paio di vicoli sterrati che conducevano verso la periferia, lasciò che l’uomo lo montasse e, vagamente irritato, partì al galoppo.

Le tenebre disegnavano sagome nere di alberi su un buio cielo grigio e carico di neve. Cavalcò per quasi due ore nella campagna, lontano dalle strade principali, attraversando trasversalmente campi e corsi d’acqua, nel freddo pungente di un’aria dicembrina, per poi fermarsi al limitare di una zona boschiva, sul retro di un alto muro di cinta.

Il cavallo era madido di sudore, ansava e sbuffava rumorosamente. Con un ampio svolazzo di mantello, l’uomo smontò di sella, prese la briglia e condusse silenziosamente animale seguendo un perimetro recintato. Arrivato ad un grosso gelso, legò le redini ad un ramo basso e continuò da solo ancora per qualche metro. Si fermò davanti al portoncino di un caseggiato, bussò lievemente due volte, poi ripeté il gesto un altro paio di volte. La porta si aprì dall’interno.

«Eccomi» disse sottovoce «dobbiamo fare presto. Sanno che ce l’ho io ed è in pericolo».

« Forza, venite» rispose flebilmente l’altro individuo, anch’egli con il viso e capo coperto «è tutto pronto».

Si diressero lungo vialetti fiancheggiati da siepi basse e curate, costeggiati da alberi imponenti e da arbusti esotici. I ghiaino crepitava sotto i loro passi furtivi.  Qualche fiocco di neve iniziò a roteare nell’aria.

«Per di qua…».

Facendo strada e con passo sicuro, il secondo uomo si addentrò in quell’immenso e cupo giardino attraverso siepi labirintiche sempre più alte. Si diressero verso un tempietto a forma di Pantheon e, passando per un viale di thuie foggiate a cipresso, giunsero ad una macchia di alberi tra cui platani e frassini per arrivare ad un poggio, dove si ergeva una statua di Ercole situata vicino a dei pioppi, e, subito dopo apparve un secondo poggio, sul quale vi era un’ara ed un’anfora.

Da qui passarono su un piccolo ponte e attraversando un boschetto di bossi, tassi e cipressi, si diressero verso una grotta. Entrarono come ombre.

«Questo è il Sepolcreto dei Templari» sussurrò «dove si trovano le tombe dei guerrieri. Passiamo dalla sala del Giuramento, venite».

Aggirarono un altare sul quale erano posti una spada, un pugnale ed un bacile. Attraverso una porta stretta discesero un corridoio e affiancarono una parete su cui era appeso un bassorilievo raffigurante una lettera G. Il corridoio sboccò in una terza caverna nella quale troneggiava una statua dalle forme ambigue: la struttura, il braccio, la cui mano impugnava l’elsa di una spada possente, e la gamba di destra e un fallo, indicavano chiaramente il suo sembiante maschile, ma dei seni rotondi e il braccio e la gamba sinistri, più aggraziati e sottili, e un sesso delicato, suggerivano una fusione con il femminile. Il corpo era senza testa.

I due uomini si inginocchiarono per un istante.

«Dobbiamo forse unire ciò che è stato separato?» bisbigliò il cavaliere.

«No, non è questo il nostro incarico. Questo è compito del Gran Maestro e si eseguirà a tempo debito».

Indicando un punto, invitò il fratello ad aggirare la statua. Dietro il basamento di marmo, una pietra divelta dal pavimento mostrava lo spazio vuoto di una piccola botola.

«Il sepolcro dell’attesa!» pronunciò mestamente.

Il cavaliere scoprì l’oggetto che aveva tenuto stretto fino a quel momento dal panno scuro che lo aveva protetto e mostrò all’altro uomo mascherato un cofanetto in legno massiccio, borchiato e con para angoli dorati. Strani bassorilievi in oro, tra cui incisioni di caratteri arabici, lo ricoprivano per buona parte. Il cavaliere fece il gesto di voler aprirne il coperchio per mostrare il contenuto al compagno, ma l’altro prontamente gli bloccò la mano guantata.

«Siamo qui per mettere al riparo il sacro» disse fermamente.

Il cavaliere riavvolse il contenitore con il drappo e lo calò nella cavità, senza proferir parola.

Coprirono la pertugio con dei sassi e lo sigillarono con la pietra pavimentale.

Si alzarono ed uscirono lesti, muovendosi tra quelle stanze come folate di vento.

«Benedetto Giuseppe Iappelli» disse l’uomo al cavaliere, ormai fuori, immersi nell’atmosfera notturna «e benedetto il conte Antonio Vigodarzere per il sacro luogo donato all’Ordine».

Il cavaliere annuì da sotto il suo cappuccio.

«Devo andare… temo siano sulle mie tracce» sussurrò «Vi ringrazio fratello, non conosco la vostra identità e non la voglio conoscere e così, per la vostra sicurezza, è bene che non conosciate la mia. Ciò che ci è stato chiesto è stato portato a compimento».

«Venite» rispose annuendo l’altro «un cavallo riposato vi aspetta. Del vostro ne avrò cura io personalmente».

Il cavaliere ripartì incontro all’alba. Attraverso strade secondarie arrivò nei dintorni di Paluello, sulle rive del naviglio del Brenta, quando all’improvviso gli sembrò di udire un galoppo di cavalli in avvicinamento. La fitta vegetazione di arbusti, resi scarni dall’inverno, non gli offrì riparo.

Tolse d’impeto la Larva e la lanciò in acqua, liberò il capo dal cappuccio e la spalla destra dal mantello. Impugnò la sua pistola e attese nella radura. Il cavallo nitrì nervoso, girando su se stesso e calpestando violentemente il terreno. Un drappello di tre uomini interruppe la corsa a una trentina di metri da lui. I cavalli fremevano e sbuffavano.

«Cosa volete signori?» gridò il cavaliere puntando la sua pistola con il braccio teso.

«Ciò che portate con voi!» rispose un tipo sinistro dal largo cappello.

«Non ho nulla con me, se non la mia vita» sbraitò.

«Allora ci direte dove avete nascosto l’oracolo, altrimenti sarà quella che vi prenderemo!».

Aveva due colpi a disposizione nel tamburo. Li avrebbe usati.

I tre si divisero attorniandolo molto alla larga. Lui ne puntò uno e lo seguì con lo sguardo, il suo cavallo si spostò con lui, assecondando i suoi movimenti.

“Forse avrete la mia vita, ma non avrete mai la mia Testa. Che sia fatta la volontà del Dio” pensò.

Sparò. Repentinamente girò su se stesso, ruotò il tamburo e sparò di nuovo.

 

Saonara, 28 aprile 1945.

Erano forse una ventina i soldati che, agitati e tremanti, stavano puntando i loro fucili mitragliatori contro una sessantina di persone tra uomini, donne e bambini, schierati davanti al muro ad ovest della chiesa di Saletto. Si respirava un’aria di terrore e di muto sgomento.

Gli ordini del Capitano si contraddicevano, urlava contro la popolazione e ordinava al plotone ora di mirare, ora di abbassare i fucili. Come avevano osato quei tre partigiani sparare contro la sua truppa? L’avamposto nazista era lì fisso da tempo ed era loro territorio questo, fino a quando non se ne fossero andati.

Il Capitano era venuto a conoscenza dell’esistenza di una reliquia sacra e non avrebbe lasciato quel luogo prima di averla tra le mani. Sapeva dove e come ritrovarla. Doveva averne il tempo però.

Gli ordini dalla Germania erano chiari, dovevano rientrare.

La ritirata era in atto, dovevano fuggire e alla svelta. Ma come poteva, lui, un Capitano delle SS, essere schernito in quel modo?

«Fratelli, per pietà» gridò disperatamente un prete uscito dalla porta laterale della chiesa «lasciate la vita a queste anime innocenti. Fermate questa follia!».

Il Capitano urlò qualcosa in tedesco e il prete si fermò.

«Prendete la mia vita, in nome di Dio, ma lasciate tornare nelle loro case questa povera gente» riprese il parroco.

Il Capitano espresse a gesti il suo diniego e, algido, con al braccio una fascia rossa dove spiccava la temuta croce uncinata delle SS, imprecò nuovamente e ordinò ai suoi uomini di puntare le armi.

« Hauptsturmfuhrer» la voce era di donna «perdoni signore… mi chiamo Ilda Eckrth…».

La donna, sbucata da dietro il prete, cominciò a parlare con l’ufficiale in perfetto tedesco. Lui le si rivolse dapprima malamente, poi, nel corso del dialogo, ammorbidì il tono e con un gesto fece abbassare i fucili ai soldati. Il Capitano, la signora Ilda e don Antonio, rimasero a discutere a lungo in mezzo alla piazza. I due cittadini infine lo convinsero a rilasciare almeno le donne, i vecchi e i bambini. Gli ostaggi rimasero in trenta, e furono rinchiusi con l’accordo che entro la mattinata successiva sarebbero stati consegnati ai tedeschi i partigiani, rei dell’affronto.

 

L’aria era densa, vischiosa. I suoi gesti erano lenti. Si inginocchiò con fatica e rimase a guardare la parte superiore di un cofanetto decorata da cesellature dorate. Sollevò il coperchio e una densa nebbia composta da piccoli e veloci vortici biancastri si levò nell’ambiente buio che lo circondava. Il cuore gli pulsava forte nel petto. Una brezza gelida gli sfiorò il corpo e gli accarezzò il viso prima di tuffarsi all’interno del bauletto. Una testa raggrinzita parve essere sollevata dal venticello e rimase sospesa in alto davanti a lui, con uno sguardo nero come la notte. Dal collo mozzato colava del sangue scuro come la pece.

«Se la testa è tagliata, in un batter d'occhio, l'uomo non è più» pronunciò.

L’uomo fece il gesto di fuggire, ma quel volto spalancò le orribili fauci che si richiusero in un lampo sulla sua testa, staccandola di netto. Il corpo brancolò per un istante, scosso da tremori, e cadde.

 

Il Capitano si levò a sedere di scatto sul suo letto. L’incubo lo aveva sconvolto, il respiro corto, affannato, palesava la sua angosciata.

Dopo quarantottore senza dormire non era stato un dono quel ritaglio di riposo che si era concesso. Quel sogno era forse un presagio?

“No” si disse “solo stanchezza”.

Ritrovata la calma, si infilò gli stivali e guardò il buio fuori dalla finestra dell’ufficio aggiustandosi la divisa.

“Devo portare al Führer ciò che ho trovato. Lo apprezzerà… potrebbe essere la mia fortuna. O stanotte o mai più.”

Posizionò il suo berretto Allgemeine SS sulla testa, infilò i guanti ed uscì.

Alcuni soldati di guardia nel cortile del caseggiato scattarono sull’attenti, salutando con rispetto l’ufficiale.

«Gefreiter Kobler, date ordine di preparare la Kubelwagen e tre uomini» ordinò il Capitano al caporale.

Il ragazzo, che non poteva avere più di vent’anni anni, apparve confuso. Ma dove dovevano andare a quell’ora? Era quasi mattina! Ma non provò nemmeno a chiedere e, superato un istante di imbarazzo, eseguì il compito assegnato. Pochi minuti dopo arrivò alla guida della jeep, con tre soldati seduti sul retro, armati di fucili ma con sguardi perplessi ed esitanti.

L’ufficiale prese posto sul sedile di destra.

«Villa Valmarana» disse semplicemente.

Il caporale ingranò la marcia e partì. I fari tagliarono la notte lungo una strada sterrata che attraversava poderi dall’aria abbandonata e, dopo poco, varcarono un cancello aperto, entrando di prepotenza in una grande aia. L’ufficiale ordinò ai suoi di seguirlo poi, abbandonata la vettura, il drappello di sparuti soldati lo scortarono lungo un viale alla luce di una torcia da sentinella che il caporale teneva in mano. Il giardino si infittì e i giovani ebbero l’impressione di perdersi in quel labirinto di siepi e pieno di ombre. Il Capitano si fermò un paio di volte a consultare una piccola mappa per poi riprendere il cammino con passi lunghi e decisi. Passato un ponticello si trovarono davanti ad una grotta. Il Capitano diede l’ordine di far luce con tutte le torce a disposizione e il caporale, prontamente, si posizionò davanti al gruppo per fare strada. Entrarono.

La stanza era sinistramente vuota e polverosa, dietro un altare di pietra coperto di foglie secche, sassi ed escrementi di galline, si intravedeva un passaggio mal illuminato dalla tremolante luce delle pile. Aggirarono l’ara e si infilarono nella stretta apertura, discesero un corridoio che sbucò in una larga stanza faticando ad illuminare il luogo. Ognuno di loro puntò in una direzione diversa ottenendo nell’insieme un’illuminazione fiocamente diffusa. Al centro si ergeva una statua dalla presenza inquietante per la sua forma e posizione e  per il fatto di essere senza la testa.

I soldati, che dal momento in cui erano saliti sulla jeep si erano chiesti dove diavolo stavano andando, a quel punto erano sconcertati. Perché il Capitano aveva voluto andare lì?

Mentre l’ufficiale consultava il cartiglio che aveva rigirato tutto il tempo tra le mani e si guardava intorno, i giovani, seppur armati, furono pervasi da un nervosismo impossibile da motivare. Sembrava loro di percepire scricchiolii, bisbigli, il frullare di ali e allo stridio di una civetta sussultarono, generando un effetto a catena di brividi che fecero agitare le luci delle torce puntate sulle pareti.

«Che diavolo vi succede, soldati!» proruppe duramente l’ufficiale «Gefreiter, fate luce qui!».

Il giovanotto si accostò al suo capo fermo dietro la statua e illuminò il punto indicato sul terreno.

Il Capitano strappò di mano la torcia al caporale e gli ordinò di togliere la pietra corrispondente. Con l’aiuto di un altro soldato e con fatica, riuscì ad estrarla, per scoprire una profonda e buia buca.  Dopo averne illuminato il fondo, l’ufficiale fece levare il cofanetto, fino a quel momento celato.

«Ora fate largo, allontanatevi tutti» ordinò con sguardo torbido e penetrante.

Si inginocchiò e, dopo un attimo di esitazione, sollevò il coperchio.

Una tela di cotone ingiallita giaceva ripiegata.

«Il Mandylion…» disse quasi tra sé e con riverenza, già pregustando gli onori che avrebbe ricevuto dal suo Führer.

Ma, mentre si apprestava a sollevare la pezza dispiegandola, una nebbiolina verdastra sembrò evaporare dal terreno. Il Capitano, immobilizzato ad ammirare un volto impresso nella stoffa, sembrò non accorgersene.

Un fruscio indistinto distolse la sua attenzione dal panno, qualcosa si mosse all’interno dello scrigno. Si accorse all’improvviso della cupa e fredda nebbia che aveva invaso la stanza tutto intorno mentre una palla di luce fioca levitò dal bauletto illuminando, con una sinistra aura, una testa rinsecchita che, con uno sguardo tenebroso proveniente da orbite vuote, lo fissò, sospesa a mezz’aria davanti a lui.

Il Capitano balzò in piedi con il volto inorridito, impugnò di scatto la sua daga appesa al fianco e, sfoderata, la fece roteare davanti a sé con occhi stralunati.

«Eri stato avvertito…» la voce sembrava un profondo rantolo.

«Chi sei!?» gridò atterrito l’ufficiale.

La testa levitò ancora, sempre più in alto, sostò per un attimo sopra la statua e poi discese lentamente, fino a posizionarsi sul corpo di pietra.

Con un brivido che sembrò scuoterla tutta, l’intera figura si mosse e sembrò liberare gli arti dalla solida materia. Impugnata la spada, dapprima conglobata nella sua massa, l’essere di pietra la sollevò e rimase immobile, tenendola sospesa per qualche istante.

«Miscredente, sacrilego, profanatore, come osi toccare ciò che è sacro?» tuonò roteando in aria la sua potente lama.

«Non puoi essere sacro, maledetto mostro» gridò atterrito il Capitano «tu sei il demonio!»  e sferrò verso questi veloci fendenti con il suo coltello.

L’essere girò su se stesso con la spada piegata di taglio e, con un largo movimento, disegnò una scia circolare di pulviscolo verdastro.

«Se ai nemici della fede la testa è tagliata, in un batter d'occhio, uomini non sono più» pronunciò.

La testa, falciata di netto, rotolò sul pavimento e il corpo colto da spasmi cadde pesantemente.

Un fracasso infernale di pietre rotolarono ovunque e si alzò un gran polverone.

Il caporale ed un soldato si precipitarono accanto al corpo del Capitano.

«Ma cosa è successo, benedetto Dio! Che gli ha preso?» Kobler era sconvolto.

«Lo ha visto anche lei, caporale, sembrava impazzito» rispose senza fiato un soldato «non ho capito perché urlava, sembrava ce l’avesse con qualcuno! Ha visto quando si è lanciato sulla statua? L’ha sfracellata».

«Caporale, non ce l’abbiamo fatta a immobilizzarlo, se ne sarà reso conto anche lei»  gridò tra le lacrime uno dei giovani «si dimenava come un forsennato…».

«Sì, ho tentato anch’io… ma… come si è ridotto in quel modo?» commentò raccapricciato il sottoufficiale «come ha fatto da solo a ridursi così?».

«Deve aver visto qualcosa qui che noi non abbiamo visto, forse una’allucinazione» disse grave uno dei soldati in disparte « forse c’era qualcosa in quel cofanetto…» e, appoggiato un piede sul basamento ancora eretto della statua, lo spinse a terra; questo, cadendo, si frantumò, unendosi a tutti gli altri frammenti.

«Andiamo via da questo posto maledetto» disse amaramente Kobler «aiutatemi a trasportare il Capitano».

Due soldati sollevarono dalle braccia e dalle ginocchia ciò che restava del misero corpo dell’ufficiale e, mentre il terzo si apprestava inorridito a raccoglierne, in qualche modo, la testa, la terra cominciò a tremare.

Usciti in tutta fretta dalla famigerata grotta dei templari, accecati dal sole ormai alto, si diressero senza indugiare lungo il sentiero di ghiaino. Il loro arrancare divenne un passo svelto, per poi finire in una folle corsa. Era giorno fatto e in breve raggiunsero la loro vettura. Caricato il corpo mutilato del Capitano, partirono sgommando, lanciando schizzi di sassolini alla velocità dei proiettili. Nel cielo, rombando, si avvicinarono delle veloci ombre scure.

Era la mattina del 29 aprile 1945.

Fulminee raffiche di colpi dalle mitragliatrici aeree, li falciarono tutti e la Kubelwagen si schiantò di lato, su un muto gelso secolare. Gli aerei anglo-americani avevano raggiunto ciò che rimaneva dell’esercito tedesco in ritirata.

Nessuno trovò mai traccia di quanto accadde quella notte nella grotta dei Templari.

Resta ancora oggi un mucchio di macerie.

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