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Notturno

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racconto
antologia:
NARRAGENDA 2020

Ero tornata.

Esattamente non ricordavo da dove. Sapevo soltanto di essere già stata lì, in quel preciso luogo.

Il crepuscolo ovattava le cose che mi stavano intorno i cui contorni apparivano sfocati e indistinti. Mi ero svegliata già da un po’.

Il fatto di essermi sempre sentita sicura di ciò che conoscevo, del territorio che avevo percorso, mi aveva resa sprezzante di ogni pericolo.

Ero nata lì; era questo che sicuramente mi dava la certezza di poter affrontare qualsiasi cosa, pensavo che il mondo fosse solo ciò che mi circondava: quelle case, quel quartiere e questo mi rendeva forte, invincibile perché ero certa di conoscerlo bene.

O forse era solo ciò che credevo.

Non riuscivo a considerare il tempo come un divenire, uno srotolarsi di eventi, lo consideravo piuttosto un percorso da un luogo all’altro: da casa a casa, da via a via, da un giardino ad un altro. Mi rendo conto ora che tutto è più complesso di quanto potessi immaginare ma, nel contempo, anche semplice.

Una realtà semplicemente complessa.

Mi è chiaro ora che non è possibile ancora spiegare ciò che sto vivendo, ma mi capacito che le prospettive sono cambiate e quanto sono cambiate!

Sono cresciuta con intorno a me un mucchio di vita, un brulicare di istinti, odori, sapori… ho vissuto una libertà incosciente e selvaggia. Ho mangiato sempre ciò che ho voluto, o trovato, senza pormi troppe domande del perché fossi lì o se le cose che avevo alla mia portata fossero in quel luogo per caso o se qualcuno le avesse messe apposta. Tutti lì intorno erano come me: vivevano come me e sentivano le stesse cose che sentivo io.

Però non abbiamo avuto tutti lo stesso destino.

No, quello no.

Il destino a volte è imprevedibile: all’improvviso ti lascia senza un riferimento, ti trascina in mezzo ad una strada e ti abbandona in balia di pericoli incredibili. A volte è il vento, a volte un movimento sbagliato, altre un nemico da cui fuggire.

Un piccolo non possiede molte armi per difendersi. Acquisisce un po’ di esperienza, forse memoria, certo, che non lo porta a rifare gli stessi errori o a ripercorrere la stessa strada che ha portato guai. Impara soprattutto dagli sbagli degli altri, che hanno pagato, anche con la vita a volte, ogni fallo, ogni azzardo, ogni rischio corso.

La vita, certo. Una vita che non creava problemi, accettata senza filosofie su quello che sarebbe stato il dopo, perché sembrava di semplice soluzione.

Il dopo era la morte.

Un po’ temuta, più per istinto che non per la paura vera di concludere il proprio ciclo, e un po’ cercata, perché l’incoscienza data dalla nostra semplicità di pensiero la mostrava come risoluzione del nostro male di vivere.

Il rischio era sempre stato tanto, dal momento in cui sono venuta al mondo. Pericoli ovunque. Abbandonata a me stessa nonostante vivessi in una comunità numerosa. Tante solitudini tenute insieme dalla necessità e dall’ignoranza.

Non c’era mai stato un dialogo che andasse oltre alle informazioni su dove c’era del cibo: spesso si partiva insieme alla ricerca di qualcosa e si finiva a banchettare tutti insieme, anche sotto la pioggia.

Io personalmente non ho mai amato troppo il sole, nemmeno allora. Ora lo schivo palesemente perché davvero nuoce ai miei occhi e lo evito se posso.

Non sono adatta alla luce del sole. Non è una malattia, è il mio modo di vivere, una caratteristica. Non l’ho scoperto da molto, in effetti non ci si conosce mai abbastanza.

Uno pensa di sapere tutto, specialmente quando è l’ignoranza a dominare.

Le poche conoscenze che avevo mi davano l’illusione che fossero il concentrato delle verità universali.

Invece sbagliavo.

Prima di tutto perché davo per scontato che l’esistenza fosse uguale per tutti, infatti non ho dedicato alcun pensiero a questo argomento nella prima fase della mia vita e non ho mai fatto confronti; in secondo luogo perché pensavo che una volta conclusa, bene o male, la vita era come se non fosse mai esistita. Non era sconforto, era rassegnazione, senza tristezze, n’é malinconie.

Non ho conosciuto la mia mamma. Nessuno del mio gruppo ha mai conosciuto la sua, e per molto, molto tempo ho pensato che non ci fosse una madre, per nessuno di noi.

Non è facile fare la madre, ora lo so, un impegno che la natura regala ma che in fretta cerca di toglierti. Perché la vita è breve, anche se so che la relatività del tempo rende vago il mio discorso.

Ricordo un giorno in cui mangiai talmente tanto che mi sembrò di esplodere. Provavo un senso d’ansia inspiegabile che mi ossessionava già da alcuni giorni. I miei arti, tutto il mio corpo erano mossi da un nervosismo incontrollabile, correvo di qua e di là, come a raccogliere tutto ciò che era mio per portarlo con me.

Provai freddo, molto freddo. Tutti i peli del mio corpo si erano drizzati più di una volta durante la giornata e il dolore all’addome mi aveva fatto contorcere con spasmi spaventosi. Qualcuno era venuto a vedere cosa mi stesse accadendo e poi se ne era andato in fretta, forse annusando nell’aria che la mia fine era vicina.

Lo pensai anch’io perché mi sentivo malissimo, non c’era nulla che mi potesse dare un po’ di pace e così, alla fine, mi arresi.

Mi trovai un angolino nascosto in un vicolo tra vecchie case, dove quasi nessuno viene mai, solo a volte qualche cane a pisciare e qualche gatto a cacciare ratti, nessuno si sarebbe accorto di me. Cercai di coprirmi con quello che avevo, con quello che potevo.

Il mio corpo diventava ogni ora più rigido, la mia mente sempre più vuota e alla fine mi addormentai.

Pensai di morire; pensai allo spegnersi di una luce, di un lampione, del sole. Per attimi lunghi come l’eterno, nei miei occhi, si disegnarono alberi verdi, gialli, rossi, ciò che avevo conosciuto e amato nel corso della mia vita e poi mi spensi serena.

Non era felicità perché non ero in grado di provare una simile emozione ma, certo, avevo la tranquillità di chi sposa l’infinito.

Ed eccomi di ritorno, con la consapevolezza di non essere morta. Mi sono svegliata rattrappita, il mio corpo completamente indolenzito e accecata da quel sole così forte che mi ha costretto a ripararmi nel primo nascondiglio che ho trovato.

Mi sono lasciata asciugare dall’aria perché l’umidità sul mio corpo era davvero insopportabile, mi sono alzata anche se invasa dalla debolezza e mi sono stiracchiata ad arte.

Ho atteso che quella luce calasse, che le ombre mi fornissero l’opportunità di allontanarmi da lì. Sentivo un irrefrenabile desiderio di ritrovare tutti quelli che avevo lasciato, anche se ne avevo solo un ricordo sommario. Avevo bisogno di un contatto diretto, ne valeva della mia vita, lo avvertivo distintamente: era un richiamo, qualcuno mi stava cercando.

Ora il crepuscolo ha quasi coperto tutto intorno, ma laggiù una finestra al piano terra di una casa manda una luce fioca e calda, che mi invita e mi attrae. La ricordo, è lì vicino che sono nata.

Mi muovo in fretta. A mano a mano che mi avvicino scorgo qualcuno. Forse lo conosco. Ma certo! E’ lui che mi chiama! Lui è come me! Sta danzando.

Luminoso, brillante e mi invita, ad un giro, due, tre intorno a quel sole delicato e tiepido… devo raggiungerlo!

Oh! Ma che succede? Perché non riesco ad andare oltre?

Le sue danze tutto intorno a quella luce così irresistibile… devo raggiungerlo… devo…

 

«Mamma guarda!» esclama la bimba.

«Cosa, piccola mia?» risponde sua madre alzando gli occhi dal libro di fiabe.

«Alla finestra, mamma, cos’è quella cosa attaccata al vetro?».

La madre si alza e va ad aprire.

Come una foglia scura sospinta da un vento bizzarro, la farfalla raggiunge la compagna che danza intorno alla lampadina penzolante dal soffitto.

«Mamma, cos’è?» la bimba chiede insistente.

«Una falena, amore mio, è solo una falena».

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